TZVETAN TODOROV

LA CONQUISTA DELL'AMERICA

Einaudi Torino 1984

In un periodo in cui l'Occidente sembra volere avviare una nuova stagione di neocolonialismo, il neocolonialismo culturale, che si sovrappone e maschera quello economico in atto già da tempo sotto forma di globalizzazione, inalberando e sventolando le bandiere dei valori universali libertà e giustizia - che esso pretende di avere scoperto e che gli altri popoli della terra dovranno accettare con le buone o le cattive maniere (il fine giustificando, come sempre, i mezzi), la lettura del libro di Todorov rappresenta un toccasana.

Non si tratta di un capolavoro. Nonostante una documentazione estremamente ricca, alcune ricostruzioni storiche sembrano approssimative, qualche intepretazione, pure suggestiva, abbastanza fantasiosa, alcune conclusioni opinabili. Il libro merita di essere letto e meditato perché, al di là della storia narrata - che è la storia di un massacro, anzi del "più grande genocidio nella storia dell'umanità" (p. 7) - esso affronta, come dice il sottotitolo dell'edizione originale, il problema dell'altro e, soprattutto, delle diverse tipologie dei rapporti tra io e altro.

Il tema è enunciato all'inizio del primo capitolo:

"Voglio parlare della scoperta che l'io fa dell'altro. L'argomento è vastissimo. Non appena lo abbiamo formulato nei suoi termini generali, lo vediamo subito suddividersi in molteplici categorie e diramarsi in infinite direzioni. Possiamo scoprire gli altri in noi stessi, renderci conto che ciascuno di noi non è una sostanza omogenea e radicalmente estranea a tutto ciò che non coincide con l'io: l'io è un altro. Ma anche gli altri sono degli io: sono dei soggetti come io lo sono, che unicamente il mio punto di vista - per il quale tutti sono laggiù, mentre io sono qui -separa e distingue realmente da me. Posso concepire questi altr come iun'astrazione, come un'istanza della configurazione psichica di ciascun individuo, come l'Altro, l'altro o l'altrui in rapporto a me; oppure come un gruppo sociale concreto al quale noi non apparteniamo. Questo gruppo a sua volta può essere interno alla società; le donne per gli uomini, i ricchi per i poveri, i pazzi per i "normali": ovvero può esserle esterno, può consistere in un'altra società, che sarà - a seconda dei casi - vicina o lontana: degli esseri vicinissimi a noi sul piano culturale, morale, storico, oppure degli sconosciuti, degli estranei, di cui non comprendiamo né la lingua né i costuim, così estranei che stentiamo, al limite, a riconoscere la nostra comune appartenenza ad una medesima specie." (p.5)

Il tema è dunque di ordine antropologico e psicosociologico. La scelta della scoperta e della conquista dell'America per parlarne è legata al fatto che essa rappresenta l'incontro più straordinario che sia avvenuto tra due culture completamente estranee, in quanto evolute secolarmente senza rapporti tra di loro: incontro dunque tra l'io occidentale, già egocentrico ed etnocentrico in conseguenza dello sviluppo tecnologico, e l'altro inteso come straniero. Catastrofico per gli amerindi, questo incontro ha, nel corso del tempo, rivelato le potenzialità implicite nel rapporto tra l'io e l'altro con una progressione che, infine, con il riconoscimento dell'appartenenza di tutti gli esseri umani ad un'unica specie, della loro pari dignità e delle differenze prodotte dalla storia, è giunta a produrre non solo l'antropologia culturale, come scienza che cerca di capire e di valutare le differenze senza pregiudicarle, ma anche un nuovo sistema di valori che, per dirla con Levi-Strauss, definisce barbaro colui che crede nella barbarie, vale a dire chi estranea o cosifica l'altro.

Tale progressione si realizza, secondo Todorov, in quattro tappe - definite dai termini scoprire, conquistare, amare, conoscere - ciascuna delle quali riconosce un soggetto esemplare, attore o partecipe della storia narrata: Cristoforo Colombo rappresenta lo scopritore, Hernan Cortés il conquistatore, Bartolomeo de Las Casas colui che ama gli Amerindi in quanto fratelli in Cristo, Duran e Sahagun i religiosi che, dedicandosi, dopo la Conquista, a raccogliere i reperti delle culture sconfitte avvaino l'etnografia, sulle cui basi nascerà successivamente l'antropologia culturale. Queste quattro tappe pongono in luce le diverse tipologie secondo le quali si può declinare il rapporto tra l'io e l'altro.

La scoperta e la conquista definiscono la tipologia dell'estraneazione, in conseguenza della quale l'altro viene colto come un essere infraumano, inferiore per natura, o addirittura oggettivato e cosificato. Ciò non dipende da una particolare cattiveria dei conquistatori.

Cristoforo Colombo è un buon cristiano che "ha a cuore l'espansione del Cristianesimo infinitamente più dell'oro" (p. 12) e, in conseguenza di questo, progetta, con i proventi della Conquista, di potere organizzare una Crociata per liberare Gerusalemme. E' insomma "un Don Chisciotte in ritardo di molti secoli sul suo tempo." (p.13) Non ha neppure un atteggiamento originariamente avversativo nei confronti degli amerindi, dei quali loda la bellezza e la docilità di carattere. Egli però non ne capisce la lingua e non ha interesse a comunicare con loro. Li considera oggetti ben integrati in un panorama naturale che gli appare come il paradiso terrestre. Di fronte alla loro reattività, attivata dalle angherie cui vengono sottoposti, il suo giudizio muta radicalmente. Gli amerindi diventano selvaggi crudeli e ostili, insensibili alla fede cristiana, che meritano di essere puniti, trattati come bestie e assoggettati come schiavi. Non sono infatti esseri, ma "oggetti viventi". (p.38)

L'estraneazione è dunque il fondamento dell'ideologia schiavista, giustificata dall'inferiorità dell'altro e dalla sua appartenenza al regno dell'infraumano.

Cortés, meno cristiano di Colombo e di sicuro più avido di potere, non si abbandona al fascino dell'oro. La sua strategia è più ambiziosa: mira alla conquista permanente di un regno, che comporta "da un lato, l'invenzione di una tattica per la guerra di conquista, e, dall'altro, l'elaborazione di una politica di colonizzazione in tempo di pace" (p 122). A tal fine, egli è costretto a comprendere la situazione - il linguaggio degli amerindi, la loro psicologia, i contrasti tra i diversi gruppi, ecc. - prima di prendere, vale a dire di conquistare. Ma - si chiede l'autore - "la comprensione non avrebbe dovuto andare di pari passo con la simpatia?" (p. 135)

Il paradosso, per cui la comprensione di Cortés, produce infine il peggior genocidio della storia umana, è accentuato dal fatto che egli, e non pochi spagnoli, via via che conoscono gli amerindi giungono ad ammirarli e a riconoscere loro alcune qualità. Perché dunque li annientano? La risposta è semplice: "Se il comprendere non si accompagna al pieno riconoscimento dell'altro come soggetto, allora quella comprensione rischia di essere utilizzata ai fini dello sfruttamento, del "prendere"; il sapere risulterà subordinato al potere" (p. 161). La comprensione degli spagnoli non va al di là del riconoscere negli amerindi uomini di una specie inferiore, che meritano, in quanto tali, di essere sfruttati.

Neppure l'avidità di denaro però basta a spiegare l'immane crudeltà degli Spagnoli, che si fonda sul fatto che la comprensione, non giungendo ad attribuire all'altro uno statuto di persona, dotata di diritti, ne promuove la cosificazione: "Il massacro è intimamente legato alle guerre coloniali, condotte lontano dalla metropoli. Più i massacrati sono lontani e stranieri, meglio è: vengono sterminati senza rimorsi, perché identificati più o meno con le bestie…

Lontani dal potere centrale, lontani dalla legislazione regia, tutti i divieti cadono; il legame sociale si sfalda e rivela non una natura primitiva (la belva assopita in ciascuno di noi), ma un essere moderno, a cui appartiene l'avvenire, che non ha alcuna morale e che uccide perché e quando gli piace. La "barbarie" degli spagnoli non ha niente di atavico o di animale; è interamente umana e preannuncia l'avvento dei tempi moderni." (pp. 125-126)

Solo allorché la comprensione si associa all'identificazione, l'inuguaglianza viene soppiantata dallla uguaglianza. E' quanto accade con Bartolomeo de Las Casa, che, in nome del ritenere tutti gli esseri umani figli di Dio, giunge ad affermare che tutti godono degli stessi diritti: "Le leggi e i diritti naturali degli uomini sono comuni a ogni nazione, sia essa cristiana o gentile, qualunque sia la sua setta, legge, stato, colore e condizione, senza differenza alcuna." (p.196) "Tutti gli indiani devono essere considerati liberi; perché in verità lo sono, in base allo stesso diritto per cio io stesso sono libero." (p. 196)

Nonostante l'elevatezza dei principi cui si ispira, Las Casas non riesce però ad affrancarsi dalla trappola per cui l'identificazione, se promuove un sentimento di uguaglianza, porta facilmente a misconoscere le differenze che pure ci sono: "Las Casas ama gli indiani: Ed è cristiano. Per lui, queste due caratteristiche sono solidali: egli ama gli indiani proprio perché è cristiano, e il suo amore illustra la sua fede. Ma questo nesso non è così pacifico… Si può davvero amare qualcuno se si ignora la sua identità, se si vede - al posto di quella identità - una proiezione di sé o del proprio ideale?" (p. 204)

L'identificazione, insomma, determina una tipologia di rapporto fondata sull'assimilazione, sia nel senso che l'io assimila l'altro, e ricostruisce la identità di questo come fosse la propria, sia che l'io si assimila all'altro, ricostruendo la sua identità come fosse quella dell'altro. Se essa dunque permette di evitare l'oggettivazione e la cosificazione, non giunge al livello della comprensione e della conoscenza piena dell'altro come uguale ma diverso da sé. In conseguenza di questo, l'identificazione fondata sull'amore promuove egualmente un'ideologia colonialista: "Las Casas non vuole porre fine all'annessione degli indiani, ma vuole soltantro che essa sia compiuta da religiosi anziché da militari… Il sogno di Las Casas è quello di uno Stato teocratico, nel quale il potere spirituale sovrasti quello temporale." (p.207)

Ma non è troppo iscrivere sotto l'ideologia colonialista qualunque influenza esterna ad una cultura, anche se essa è benefica? No, secondo l'autore: "Il colonialismo, se si oppone da un lato allo schiavismo, dall'altro si oppone ad un'altra forma, positiva o neutra di contatto con l'altro, che chiamerei semplicemente comunicazione." (p.216) "E' possibile stabilire un criterio etico in base al quale esprimere un giudizio sulla forma delle influenze: l'essenziale, direi, consiste nello stabilire se esse sono proposte o imposte… Esistono aspetti di una civiltà che si possono ritenere superiori o inferiori; ma ciò non significa che essi possano essere imposti agli altri." (p. 218) "Non è necessario rinchiudersi in una sterile altrenativa: giustificare le guerre coloniali (in nome della superiorità della civiltà occidentale), o rifiutare ogni interazione con lo straniero (in nome della propria identità). La comunicazione non violenta esiste, e si può difenderla come un valore." (p. 221)

Nella storia della conquista dell'America, la conoscenza interviene ad opera di due religiosi, Diego Duran e Bernardino de Sahagun, i quali, mentre cercano di convertire tutti gli indiani alla religione cristiana, ne scrivono anche la storia, ne descrivono le usanze e la religione e contribuiscono così ad una valutazione più obbiettiva di una cultura. Il loro impegno nel salvaguardare un patrimonio culturale attesta che la loro fede non ha paura di riconoscere le differenze né presume che, perché avvenga la conversione al Cristianesimo, esse debbano necessariamente essere negate o estirpate.

L'epilogo del libro è denso di riflessioni interessanti. L'autore prende spunto dall'affermazione di Las Casas secondo la quale l'ira e il furore di Dio si sarebbero abbattute sulla Spagna per le rovine e i massacri perpetrati. Tenendo conto che, dopo la Spagna, il colonialismo, sia pure meno brutale, coinvolse portoghesi, francesi, inglesi, olandesi, egli si chiede se la profezia non debba essere estesa a tutta l'Europa e se, in tal caso, essa si sia relizzata, ovviamente per azione degli uomini. Già nel 1984, Todorov ne intravede le premesse nella rabbia antioccidentale che pervade tutti i popoli colonizzati, e ritiene una sciagura la possibilità che essa possa dar luogo ad una vendetta, la quale non farebbe altro che "riprodurre quanto di più condannabile gli europei hanno compiuto" (p. 298). Rileva, poi, che se anche essa si potrebbe ritenere sostanzialmente giusta (adottando il criterio della legge del taglione) sarebbe catastrofica, perché allontanerebbe l'umanità dalla comunicazione che, sola, può assicurare la convivenza tra culture e civiltà diverse.

Proprio in conseguenza delle sue sciagurate origini, che hanno comportato la schiavitù e la colonizzazione, la civiltà occidentale, ha trovato la via per correggersi: "I rappresentanti della civiltà occidentale non credono più così ingenuamente alla sua superiorità e il movimento di assimilazione si sta spegnendo da parte dell'Europa, anche se i paesi - antichi e recenti - del Terzo Mondo continuano a voler vivere come gli europei. Perlomeno sul piano ideologico, noi cerchiamo di combinare quel che ci sembra abbiano di meglio i due termini dell'alternativa: vogliamo l'uguaglianza senza che ciò significhi identità; ma volgiamo anche la differenza senza che degeneri in superiorità/inferiorità; speriamo di poter godere i benefici del modello ugualitarista e quelli del modello gerarchico; aspiriamo a ritrovare il senso del sociale senza perdere quello dell'individuale… Vivere la differenza nell'uguaglianza: è cosa più facile a dirsi che a farsi." (pp. 301-302)

Terribilmente difficile, verrebbe da dire, tenendo conto dell'attuale stato di cose. L'Occidente, infatti, sembra essere andato incontro, nei poco più di quindici anni che ci separano dalla pubblicazione del saggio, ad una vera regressione. L'ideologia colonialista, così come la definisce Todorov, è ricomparsa sotto forma di volontà di assimilazione dell'Altro, vale a dire del resto del mondo, in nome di valori universali - i diritti umani, la democrazia, la libertà, la giustizia - che l'Occidente, a partire dagli Stati Uniti, sembra incline a imporre piuttosto che a proprorre, anche con la forza delle armi. Se si tiene conto che i crimini della Conquista sono stato giustificati in nome del Cristianesimo, vale a dire di una religione dell'amore che ha portato a bruciare e a squartare esseri umani, la possibilità che il passato, mutatis mutandis, si ripeta in nome di nuovi valori, laici questa volta, non può sfuggire a nessuno. L'utopia della comunicazione, auspicata da Todorov come definitivo rimedio nei confronti della barbarie intrinseca all'estraneazione e alla cosificazione sembra allontanarsi piuttosto che approssimarsi. La progressione storica che il libro definisce come univocamente evolutiva evidentemente riconosce anche la possibilità di un arresto e di una regressione.

Le tipologie del rapporto tra io e altro analizzate da Todorov rappresentano un sottile spunto di riflessione non solo da un punto di vista antropologico ma anche psicosociologico. A livello di rapporti interpersonali significativi - familiari e di coppia - e di rapporti sociali - come quelli lavorativi - i pericoli dell'estraneazione, dell'oggettivazione e della cosificazione si danno. A livello familiare e affettivo, poi, l'assimilazione fondata sull'identificazione, che assegna all'altro uno statuto immaginario, è frequentemente in gioco nella genesi delle esperienze di disagio psichico.

E' superfluo aggiungere in quale misura le tipologie perverse del rapporto tra io e altro caratterizzano la pratica corrente psichiatrica.